mercoledì 24 febbraio 2010

Intervista a Federico Magi



Federico Magi, alias Léon, classe 1973, è scrittore, critico letterario, critico cinematografico, giornalista ed educatore. Tra gli animatori di «Lankelot», penna anticonformista e tagliente, è tra i più grandi esperti di cinema e letteratura in Italia, oltre che noto polemista politico.



Quali sono i mi
ti, gli autori, le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio culturale?

Intanto grazie per questa nuova ospitalità, dopo aver condiviso con i vostri lettori i miei pezzi su Militia e Sudditi. Vi leggo sempre, e devo dire che i vostri articoli sono ricchi di interessanti approfondimenti, oltre che ben curati nella forma. Detto ciò, passiamo al domandone iniziale. Non voglio tediarvi col mio lungo ed eterogeneo percorso formativo, pertanto vi darò qualche cenno in ordine più o meno temporale. Sono sostanzialmente un autodidatta da quando ero bambino; ho avuto un pessimo rapporto con l’istituzione scolastica fin dalle elementari, culminato nell’allontanamento da almeno un paio di istituti tra medie e superiori. L’università è andata un po’ meglio, ma devo dire anche qui che la mia formazione è stata molto personale (spesso, per alcune materie umanistiche, sceglievo testi non menzionati dai professori) e in un certo modo antiaccademica (ho fatto anche esami di teologia, in cui ho citato Guénon, nella totale ignoranza di chi mi ascoltava), fino a concludere il mio percorso formativo «istituzionale» con una tesi da me fortemente voluta e sconsigliata da tutti, prendendo la mia relatrice per sfinimento, sulla vita le opere e il metodo educativo di Rudolf Steiner. È stata una profonda soddisfazione discuterla davanti a un uditorio che mal conosceva o detestava il fondatore dell’antroposofia. Ma passiamo alla formazione spontanea e naturale, lontana da scuole e accademie, cominciata nella primissima adolescenza con un libro che m’ha aperto un mondo, che è quello con cui sostanzialmente ancora oggi – nonostante i 36 anni suonati – guardo le cose sensibili e sopransensibili, fisiche e metafisiche. Sto parlando de La storia infinita, la notissima fiaba di Ende, trasposta anche sullo schermo, che oppone la fantasia al nulla filtrando questa grande battaglia – che è poi la vera grande battaglia per noi tutti: l’essere contro il nulla – attraverso gli occhi di un bambino che legge le gesta ed entra a sua volta nella storia di un guerriero bambino, fino a cavalcare nei cieli con lui sopra il fortunadrago. La storia di Atreju e di Bastian mi ha modellato interiormente, mi ha aiutato a crescere. Poi c’è stata la grande letteratura, dai 18 anni in avanti: Demian e Peter Camezind di Herman Hesse, Delitto e castigo e I fratelli Karamazov di Dostoevskij, I dolori del giovane Werther, Le affinità elettive e il Faust (all’interno del quale c’è uno dei concetti più belli e pregnanti sull’adolescenza che abbia mai letto) di Goethe. In seguito Mishima, di cui mi piace ricordare almeno tre capolavori: Confessioni di una maschera, Il padiglione d’oro, Cavalli in fuga. Ultimo ma non ultimo, il grande amore per Céline, per il suo spirito anarchico e la sua vena dissacrante: Viaggio al termine della notte è uno dei libri fondamentali per capire il Novecento. Successivamente è stato il tempo dell’impegno politico, nel Fronte della Gioventù, e l’avvicinamento ad autori quali Evola, Guénon, Jünger, Léon Degrelle, più un lunghissimo approfondimento sull’opera omnia di Nietszche, che considero il più grande pensatore degli ultimi due secoli. Ultimo elemento decisivo, per la mia formazione culturale, è stata sicuramente la scoperta, intorno ai 25 anni, delle metafisiche orientali, grazie ai testi di Evola e Guénon, ma solamente come appassionato in cerca di nuove fonti di conoscenza, rifuggendo le mode legate al commercio della spiritualità. Anche qui mi si è aperto un mondo, che non è il caso di approfondire in questa sede. Poi vabbe’ c’è la poesia, la musica, e la mia grande passione, il cinema, ma di questo avremo modo di parlarne più avanti.


Conosci molto bene il mondo dell’informazione. Cosa ne pensi del giornalismo italiano odierno? Marco Travaglio è secondo te un esempio di professionista libero ed indipendente?

Qui posso risponderti con un minimo di deformazione professionale. Ne penso tutto il male possibile, ma non solo per quel che riguarda il giornalismo italiano, parlo del «giornalismo democratico» del dopoguerra a qualsiasi latitudine. Partiamo dal presupposto che il giornalista è «servo» per definizione, che risponde a un editore e che ha sempre o quasi sempre non solo il limite delle battute, ma anche quello di dover tenere il cervello più spento possibile. Un mestieraccio, insomma, che come tante cose della mia vita mi ritrovo a fare per una serie di eventi da me non calcolati. Io sono principalmente un critico, musicale letterario e cinematografico, ma ho fatto anche l’addetto stampa per la politica. Posso assicurarti, se mai ce ne fosse bisogno, che l’indipendenza del giornalista non esiste, che la libertà di stampa è una burla con cui prendere per il culo le masse. L’unica libertà è quella che puoi crearti facendoti un nome: in quel caso sei tu l’editore di te stesso, o scrivendo in rete, come puntualmente faccio non soltanto su «Lankelot». Apprezzo molto Massimo Fini, proprio per questo, perché è l’unico grande giornalista veramente libero che c’è in Italia. Su Marco Travaglio stenderei un velo pietoso, non vale un’unghia di Massimo Fini. A prescindere dalla mia avversione ai moralisti di professione, quale Travaglio è, lo considero né più e né meno dei tanti paraculi del settore che hanno scoperto una buona via remunerativa: nel suo caso il gossip giudiziario. Ovviamente non è né libero né indipendente, questo dopo la premessa che ho fatto mi pare scontato. Se penso che c’è ancora chi ci fa lunghi pistolotti sulla libertà di stampa, mi verrebbe veramente da sorridere, se in questo non ci fosse un elemento tragico. La tragedia sta nel fatto che non solo non esiste la libertà di stampa, ma che l’informazione è drogata dal gossip e dall’inessenziale, e che la maggioranza dei giornalisti ha una preparazione culturale davvero scarsa. L’ignoranza regna sovrana, basta leggere la carta stampata.


Cosa ne pensi di Beppe Grillo, da più parti presentato come geniale oppositore alla «politica ufficiale»?

Qui la ricca risata me la faccio tutta. E non perché Grillo sia un gran comico, non mi faceva ridere neanche quando si proponeva nella veste in cui tutti l’abbiamo conosciuto, ma perché se per qualcuno il giullare ligure era realmente un’alternativa politica credibile vuol dire proprio che siamo arrivati alla frutta. È stato e resta un qualunquista della peggior specie, con alle spalle però interessi fortissimi che lo pongono a distanze siderali dalla posizione di sbandierata indipendenza. La vera e propria schifezza che ha fatto nei confronti di CasaPound lo sta a dimostrare, se mai ce ne fosse bisogno. Ma vogliamo sprecare tempo a parlare di uno come Grillo? Lasciamo stare, passiamo avanti; la migliore risposta, in questi casi, è l’indifferenza.


Tangentopoli fu veramente l’azione purificatrice della magistratura indipendente contro la classe politica corrotta? Perché il Pci-Pds non fu praticamente colpito dalle indagini? E cosa è cambiato nel mondo politico rispetto ad allora?

Restiamo nel campo delle favole dell’Italia repubblicana. Tangentopoli è evidentemente una di queste. Certo poteva essere qualcosa che nei fatti non è stato, per una serie di motivi che vedono questa volta non tanto la politica come responsabile principale, bensì la magistratura, che ha incontestabilmente abusato del suo potere, ancora una volta (come nei dolorosi anni Settanta) a senso unico, ancorché il bersaglio non fossero più i «pericolosi fascisti». Che l’Italia del compromesso storico fosse arrivata a livelli di corruzione non più sopportale è un fatto, come è un fatto che l’opinione pubblica cominciò a provare ribrezzo per i partiti che hanno governato la così detta «Prima Repubblica», fino a cancellarli dalla vita politica (è il caso del PSI), o a far crollare i sottili equilibri di potere interni (è il caso della divisione degli ex DC in più partiti d’ispirazione cattolica). C’era un disegno per far governare il PDS di Occhetto, questo oggi lo sanno tutti, e c’erano sicuramente forti pressioni per un ribaltamento del sistema provenienti da oltre il confine nazionale. Certo poi arrivò Berlusconi a rompere le uova nel paniere un po’ a tutti, e qui cominciò tutta un’altra storia, certamente imprevista da chi aveva fatto tanta fatica per creare la corsia preferenziale all’ex PCI, che purtroppo condiziona ancora pesantemente in negativo la politica attuale. Rispetto ad allora, dopo una fase di iniziale entusiasmo, non è cambiato granché. Semmai le cose sono anche peggiorate, perché la corruzione non è certo diminuita e nel frattempo c’è stato l’ingresso traumatico nell’Euro e la crisi economica, con tutti gli annessi e connessi del caso. Ma le reali questioni che dovremmo porci sono altre, perché è naturale che una politica mondiale imperniata su finanza, grandi banche e grandi capitali partorisca una burocrazia corrotta, oltreché inefficiente. Bisogna guardare ai modelli di sviluppo, la corruzione è la pagliuzza, la trave è altrove. Ma questo è un discorso troppo lungo, e ci porterebbe lontano dal tema della domanda.


Che cosa ne pensi dell’opera politica di Bettino Craxi?

Della controversa opera politica di Bettino Craxi ho tutto sommato un’opinione positiva. E vi spiego perché, nonostante la sua figura resti sostanzialmente lontana dalla mia formazione politica. Craxi ha avuto il merito di immaginare un’alternativa a sinistra rispetto al PCI, vista l’allora assoluta egemonia dei comunisti sulla sinistra politica italiana. Ma non soltanto, egli è stato l’unico statista italiano a opporsi allo strapotere degli americani sul nostro suolo, e mi riferisco ovviamente a Sigonella. In più Craxi va ricordato per la lungimirante politica estera sul Mediterraneo, e per l’equilibrio nei rapporti col Medio Oriente. Certo restano gli anni bui della corruzione, la quale peraltro, come oggi è a tutti chiaro, era estesa a tutti partiti della Prima Repubblica, se si eccettua il Movimento Sociale Italiano. Considero la corruzione, ahimé, insita nei meccanismi dei sistemi democratico-parlamentari. Più che cambiare gli uomini e le piccole politiche contingenti e nazionali, come ripeto, andrebbe rivisto il modello di sviluppo e i sistemi che ci governano dal dopoguerra. Gli uomini politici vanno e vengono, e sono soltanto ingranaggi di questo meccanismo perverso. Li considero accessori al sistema, certo con qualche lodevole eccezione che comunque non cambia la sostanza del mio discorso.


Berlusconi è un leader carismatico, un mafioso-pidduista che sta distruggendo il paese o una via di mezzo?

Il tema Berlusconi è veramente stucchevole, vista l’assoluta centralità della sua figura nella politica degli ultimi 15-16 anni. Tutto è ruotato intorno a Berlusconi sì/Berlusconi no. E ti giuro che se c’è una questione che non m’appassiona, politicamente parlando, è proprio questa. Non mi piace parlarne perché lo ritengo un falso problema, dietro il quale si nascondono gli interrogativi e le urgenze di cui parlavo nelle risposte precedenti. Non credo sia un mafioso ma non è questo il punto. Berlusconi è lo specchio dei tempi in cui viviamo, un uomo popolare mediaticamente che è riuscito a dominare – per questa sua peculiarità – la scena politica. Non ho mai pensato che influenzasse in modo decisivo il voto attraverso le sue tv, più che altro è la pessima tv in sé che alimenta miti e modelli di sviluppo deteriori. Credo che in Italia Berlusconi rappresenti una lobby potente come ce ne sono altre, e che non sia nemmeno la più potente. Non vado oltre, perché chi ha un minimo di cultura e conoscenza della storia dell’Italia contemporanea sa bene a chi e cosa mi riferisco, basta guardare il background delle così dette «élites culturali» del Belpaese, sovente forgiato negli appelli all’annientamento politico e addirittura fisico degli antagonisti ideologici del tempo che fu. Ogni riferimento agli ex Lotta Continua, che oggi ci fanno la morale in tv e dagli scranni del parlamento, è puramente voluto.


Di Pietro è veramente il leader dell’unico partito serio ed onesto della Seconda Repubblica?

Mi permettete un’altra risata? Ma sì che me la permettete. Per Di Pietro vale più o meno lo stesso discorso fatto per Grillo e Travaglio, con l’aggravante che l’ex magistrato ha gestito la cosa pubblica ed è il leader di un partito becero e giustizialista. Disprezzo il giustizialismo per principio, ma ancor più quello esercitato in cattiva fede e per scopi meramente politici e di parte. Di Pietro è anche rozzo e ignorante, è quanto di più lontano dallo statista politico e meno che mai vicino a un possibile modello edificante in cui le giovani generazioni possano identificarsi. E c’è un’ulteriore aggravante: predica bene e razzola male. Davvero uno dei peggiori politici italiani, ma non credo che possa durare a lungo o generare consensi oltre la soglia del cieco antiberlusconismo. Per fortuna.


Passiamo alla storia. Che cosa è stato secondo te sinteticamente il Fascismo? Alcune sue intuizioni e proposte possono essere valide ancora oggi?

Premetto che vengo da una famiglia missina, con un padre appassionato di storia che si iscrisse 15enne, nei primi anni Cinquanta, al MSI. Le figure di Mussolini, Napoleone, Giulio Cesare e Nerone vivono nei miei ricordi fin dalla primissima infanzia, vista l’enorme mole di libri a tema che possedeva mio padre. Non potevo che farmi una precoce cultura sul Fascismo e sulla storia contemporanea, e questa è stata davvero una fortuna. Una fortuna perché ho potuto leggere e studiare il fenomeno senza pregiudizi, e con uno spirito critico raramente riscontrabile nei miei coetanei, anche grazie al mio personale approccio a fatti, idee e personaggi della cultura e della storia. Sono uno spirito critico, che ha fatto suo l’insegnamento di Heidegger incentrato sul dubbio metodico e sull’importanza delle domande, piuttosto che nel voler trovare a tutti i costi le risposte. Questa premessa per dire che pur ammirando Mussolini e condividendo molte cose dell’esperienza del Ventennio fascista, non sono mai stato neofascista, né dal punto di vista ideologico né tanto meno da quello antropologico. Mi sono divertito a definirmi fascista quando ho incontrato ciechi oppositori: come insegnava Jünger, il bello della vita è nella forte e dolorosa tensione dei contrasti. Dirò una cosa che magari farà arrabbiare qualcuno, ma sono convinto che il Fascismo sia durato troppo poco. E mi spiego. Come è a tutti lampante, gli italiani sono un popolo con tanti pregi ma anche con atavici, evidentissimi difetti, primo tra tutti un’identità comunitaria o patriottica quasi del tutto assente o notevolmente frammentata. Senza dilungarci sui motivi di ciò, è chiaro come il Fascismo tentò, nell’immaginare una sorta di dottrina laica ispirata alla grandezza dell’Antica Roma, di intervenire proprio su questo punto nodale, vista l’eredità della grigia èra giolittiana che lasciava pesantissime questioni identitarie aperte sul campo. Come ad esempio quella delle così dette «terre irredente». Questa fu la base empatica e ideologica da restituire al popolo, ma il Fascismo da questo assunto ideale fece scaturire fatti incontrovertibili, imperniati su una politica sociale che assurse all’attenzione di tutti i grandi Stati d’Occidente. Il Fascismo si proponeva, e per un lungo periodo ci riuscì anche, di trovare un’equa sintesi tra capitale e lavoro. Anche sul piano artistico culturale e architettonico il Fascismo fu all’avanguardia, tanto che se guardiamo a una città come Roma troviamo le tracce dell’epoca papalina, di quella fascista e niente di memorabile in quella repubblicana. A meno che non si vogliano ritenere grandi opere il Corviale, Laurentino 38 e compagnia. Fuori dalle risoluzioni della storia e dall’adattamento della stessa alla dottrina dei vincitori, il Fascismo fu preso a modello di efficienza e di sviluppo sociale dagli Stati Uniti come dalla Gran Bretagna, tanto che dopo la pesante crisi di Wall Street Roosevelt prese importanti decisioni politiche – come la nazionalizzazione delle banche – che guardavano inequivocabilmente all’italico modello di sviluppo. Certo poi ci fu la guerra, le differenti alleanze e la dolorosa sconfitta, arrivata dopo la vergognosa resa dell’8 settembre. Il Fascismo fu certo un regime di fatto dittatoriale, fondato su modello gerarchico e su un partito unico, ma prima dell’ingresso nel conflitto ebbe incontestabilmente un consenso popolare reale che nessuna nazione poteva vantare al tempo. Questi sono fatti, questa è storia, e chi non la conosce è bene che si informi. E poi c’è la malafede, l’egemonia culturale dei vincitori che perdura. Il Fascismo va restituito alla storia, con maggiore serenità di giudizio. Verrà il tempo, ne sono certo, anche per una più corretta rilettura di questo periodo storico.


Sono esistite una parte «giusta» ed una «sbagliata» nel secondo conflitto mondiale?

Questo è un discorso molto complesso, perché da che storia è storia esistono vincitori e vinti, idee che confliggono e che culminano nel sangue. È la storia dell’evoluzione umana, e così sempre sarà. Ho sempre rifiutato la logica del buono e del cattivo, del giusto e dello sbagliato, privilegiando l’analisi della contingenza storica e dei delicati equilibri geopolitici. La Seconda Guerra Mondiale non sfugge a queste dinamiche, e chi aderì all’alleanza sconfitta lo fece anche per ideali nobili ed emergenze legate al territorio in cui viveva. Emblematica, a questo proposito, la parabola del condottiere belga Léon Degrelle, figura a cui sono legatissimo dopo che mi capitò tra le mani lo struggente e poetico Militia. Léon vedeva in Hitler l’unica speranza per evitare quello che poi, puntualmente, a guerra finita si verificò: l’egemonia politica dei due blocchi (USA e URSS) sull’Europa. Egli combatté fino allo stremo sul fronte orientale, e quando tornò in Patria (il Belgio) trovò ad attenderlo una sentenza di morte come traditore. Riuscì a fuggire e visse ancora per lungo tempo, in un malinconico esilio spagnolo. Ma c’è anche chi fu meno fortunato di Léon Degrelle, per usare un eufemismo, che pur dovette subire umiliazioni prigionia e violenze psicofisiche, chi è caduto orgogliosamente senza lasciare tracce nella memoria della storia e degli uomini.


Che significato hanno avuto le azioni e le opere di Léon Degrelle per la tua formazione, culturale e spirituale?

Neanche a farlo apposta, questa domanda arriva giusto a rimorchio della precedente. L’esperienza e gli scritti di Léon Degrelle mi hanno segnato profondamente, sia per la statura di uomo e di condottiere, sia per le bellissime parole che ci ha lasciato a testimonianza della sua dolorosa ed esaltante esperienza. «Che il destino ci trovi sempre forti e degni», diceva Léon, che con questa frase riuscì a sintetizzare ciò che realmente conta del nostro tragitto terreno. La dignità prima di tutto, soprattutto verso se stessi: Léon resta come un esempio di autodisciplina finalizzata a un grande scopo, al superamento delle umane paure e debolezze per fortificare l’anima attraverso le gesta. E le gesta restano come esempio, come monito, come testimonianza di ciò che siamo. Inequivocabilmente. Militia è colmo di pensieri maestosi che fanno bene allo spirito. Quando mi sento perso, in difficoltà, vittima delle mie infinite contraddizioni, torno sempre alle sue bellissime pagine, per ridestarmi dal torpore di una contingenza che spesso annebbia lo spirito facendoci scegliere le vie più facili, le scorciatoie. È una sorta di manuale per un’ascesi superiore, o quanto meno così l’ho sempre interpretato. E, come saprete, Léon fu un fervente cattolico, mentre io non sono affatto religioso.


Drieu, Céline, Brasillach. Cosa ci lascia il connubio francese tra politica e letteratura nella prima metà del ’900?

Lascia moltissimo, ancorché la loro diffusione, soprattutto per quel che riguarda Brasillach e in parte Drieu La Rochelle, non sia assolutamente estesa quanto dovrebbe. Diverso è il discorso per Céline, i cui romanzi pre-sconfessione del comunismo restano ancora nelle biblioteche di parecchi sinistrorsi del tempo che fu. E mi riferisco a Morte a credito e Viaggio al termine della notte. Tutto cambia da Mea Culpa in poi, in cui il letterato francese sparò a zero sul comunismo dopo un viaggio in Unione Sovietica. L’anatema definitivo contro Céline arrivò poco dopo, in conseguenza del feroce scritto antiebraico Bagatelle per un massacro. Parecchi dei suoi testi successivi sono ancora censurati o fortemente ostracizzati. Come avrete inteso, dei tre adoro Céline, ma ho amato molto anche la figura tragica e titanica del grande Drieu, che conobbi leggendo il coinvolgente Fuoco Fatuo. Estendendo la domanda che mi avete posto, mi piace citare, per evidenti affinità, altri due grandi letterati come Knut Hamsun ed Ezra Pound, che hanno subìto l’identico oblio culturale per lunghissimo tempo, e che fortunatamente da qualche anno cominciano ad essere riscoperti da un pubblico più vasto e meno ideologizzato. C’è un approfondito saggio, che vorrei consigliare, sull’importante esperienza e il lascito di questi grandi letterati eretici, che risponde al titolo La tentazione fascista, del finlandese Tarmo Kunnas, nel quale vengono messi in evidenza i nessi tra gli autori in questione, accomunati da una concezione tragica ed eroica dell’esistenza.


Julius Evola è una figura molto dibattuta. Quali sono secondo te i punti di forza e di debolezza che traspaiono dalle opere del filosofo della Tradizione?

I libri di Evola sono stati per me uno dei più importanti elementi di formazione, prima esistenziale che politica. Anche perché, come ben saprete, nella sterminata opera di Evola c’è molto poco che riguardi la prassi politica, se si eccettua Gli uomini e le rovine. È buffo il modo con cui ho approcciato questo autore, che volli leggere assolutamente appena 18enne quando incominciai a sentir circolare il suo nome negli ambienti della militanza politica. Scorrendo i suoi titoli, e non sapendo assolutamente nulla su di lui, ordinai alla mia libreria di fiducia L’uomo come potenza, convinto dal roboante titolo. Immaginate la sorpresa mista a sconcerto quando, sfogliando le pagine del corposo volume, scoprii che si trattava di un saggio sul tantrismo, che al tempo non sapevo nemmeno cosa fosse, naturalmente. Ore ed ore su quelle pagine senza cavarne assolutamente nulla. «È questo il tanto celebrato Evola?», mi domandai. Per fortuna non mi sono abbattuto, e mi lasciai consigliare da chi aveva un percorso politico culturale molto più vasto del mio, vista l’età. Ecco che arrivarono ai miei occhi avidi di conoscenza, più o meno in quest’ordine, Gli uomini e le rovine, Cavalcare la tigre e Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo. Ma la vera sfida fu Rivolta contro il mondo moderno, un testo unico nel suo genere, che ampliava i discorsi accennati da René Guénon in Crisi del mondo moderno, ma con una forma e dei contenuti più incisivi e meglio interiorizzabili. Negli anni ho letto quasi tutto del filosofo della Tradizione, appassionandomi anche ai saggi sulle metafisiche orientali, come La dottrina del risveglio e Lo Yoga della potenza, che era un ampliamento dei contenuti presenti ne L’uomo come potenza. Per arrivare al cuore del pensiero evoliano ho riletto i suoi testi cardine più volte negli anni, interiorizzando ogni volta qualcosa in più, grazie alla mia disposizione all’analisi e a sempre nuove conoscenze che crescevano col crescere delle letture e dell’età. Considero Evola l’autore ostracizzato per eccellenza, qui in Italia, uno dei più citati ma meno letti anche a destra. Il suo pensiero è stato sovente frainteso anche dagli appassionati, i così detti «evolomani», e volutamente mal interpretato dai suoi detrattori, che come spesso accade ne scrivevano senza averlo letto. I suoi testi imprescindibili, per la mia sensibilità (ma anche per il suo unico, vero esegeta: Adriano Romualdi), sono sicuramente Rivolta, Cavalcare la tigre e Il cammino del cinabro, una sorta di autobiografia spirituale. Le considerazioni contenute in Cavalcare la tigre, partendo dal concetto fondamentale di «uomo differenziato», pongono il pensiero evoliano su un piano più che mai attuale. Nel mio piccolo ho cercato di diffondere la sua opera in tutti i contesti ricettivi, e spero vivamente che il suo nome, depurato dall’ignoranza e dall’arroganza della larga schiera di intellettuali suoi detrattori, cominci finalmente a circolare tra le nuove generazioni.


I cosiddetti «anni di piombo» sono stati una delle pagine più violente ed oscure della storia italiana. Chi furono secondo te i maggiori protagonisti, noti e meno noti? Furono veramente coinvolti anche i servizi segreti, sia italiani che stranieri?

Gli anni di piombo, per chi come me ha militato a destra, sono in primo luogo tanti nomi di ragazzi caduti per un ideale. E voglio ricordare – e mi scuso se non faccio tutti i nomi – quelli che, in conseguenza della loro dolorosa parabola, mi sono rimasti dentro come fratelli che non ho mai conosciuto e che vivono nel mio percorso ideale, animico, spirituale. Sergio Ramelli, Nanni De Angelis e Paolo Di Nella. La vicenda di Sergio Ramelli, in particolare, mi strazia ogni volta che ci ripenso. Come diceva Céline in Mea Culpa, «c’è ancora qualche motivo di odio che mi manca. Sono sicuro che esiste». Be’ questo motivo di odio mancante l’ho trovato e provato nei confronti dei responsabili politici di quell’orrore, e mi riferisco, in particolare, non tanto a chi ha materialmente compiuto quei delitti, ma agli intellettuali che li hanno alimentati, giustificati, suffragati, ai giornali come «Lotta Continua» dalle cui colonne si invitava a uccidere i fascisti perché, in fondo, non era reato. E non dimentico chi come i vari Franca Rame e Dario e Jacopo Fo hanno fatto appelli in favore degli assassini di Primavalle, fino a mistificare indecentemente la tragica vicenda. Ma l’odio si estende anche a quell’Italia democristiana dei Cossiga e degli Andreotti, alla magistratura compiacente con gli assassini rossi, ai docenti e ai professori criminali (come dimostra la triste vicenda del povero Sergio Ramelli), e a un’informazione mai tanto faziosa e delinquente come lo fu nei caldi anni di piombo. Non ho mai fatto mia l’apologia di quegli anni, come a qualche irresponsabile ancora piace fare, e mi incazzo pesantemente con i giovani ragazzi di destra quando scelgono come modello di militanza ideale «Giusva» Fioravanti e i NAR. Come al solito in questo c’è la colpa di adulti nostalgici di un tempo di cui non si deve proprio avere nostalgia, se non per un impegno ancora basato sugli ideali, a differenza di adesso. Sui servizi segreti, che dirvi? Mi pare logico siano stati responsabili anch’essi, essendo un parte fondamentale dello Stato, che scelse come evidente di stare a guardare, mentre i ragazzi morivano, decisamente più a destra che a sinistra. Ne aveva tutti gli interessi, come si è capito in seguito.


Quanto c’è di vero nella ricostruzione storica che vuole biechi tramaroli neofascisti impegnati in primo piano nelle stragi per impedire l’avanzata del Pci?

Questa è un’altra favola metropolitana, o per meglio dire italiota. Quali sarebbero queste pericolose trame neofasciste? Che qualcuno porti fatti e prove concrete, che evidentemente non esistono. E che non mi si porti come prova la risibile condanna dei vertici dei NAR per la strage di Bologna, che l’evidenza dei fatti ha decretato essere una palese sentenza politica e al contempo un modo per trovare un capro espiatorio. Oramai non lo negano neppure a sinistra. Come ripeto, gli anni Settanta hanno visto il neofascismo italiano come vittima e non come carnefice, se si eccettua la sconclusionata parabola dei NAR, che peraltro agirono soprattutto per reazione, come ha sempre affermato lo stesso Fioravanti, e che erano strutturati in pochissime unità, rispetto al terrorismo rosso. A meno che non si intenda per neofascista chiunque o quasi: nelle invettive dei compagni ciecamente ideologizzati fascisti erano anche la polizia e i servizi segreti. Fascista era chiunque non la pensasse come loro, in ossequio alla triste e sanguinosa eredità dei partigiani comunisti. Logico che vedessero complotti fascisti ovunque. Suvvia, non alimentiamo uno sterile dibattito su queste tesi risibili con ulteriori parole, torniamo a questioni più serie.


È corretto parlare di egemonia della sinistra nel mondo della cultura e dell’informazione?

Sì, è corretto, soprattutto in Italia. E la colpa è soprattutto dei democristiani, che lasciarono campo libero al PCI perché convinti che il potere reale si esercitasse altrove. Fu un errore colossale, perché niente come la cultura orienta i gusti, le tendenze e le scelte di un popolo. Una sciagurata leggerezza, perché – come tutti sappiamo – è dura cambiare concetti e convinzioni radicate nel comune sentire di una nazione. Mi riferisco in particolare ai settori artistici, che hanno prodotto élites pseudo-intellettuali minate dal dogma marxista, che come sappiamo è di un’ortodossia senza pari. Conseguenza di ciò fu che nei campi dell’arte più diffusa e popolare, come il cinema, la musica e la letteratura, difficilmente si trovava lavoro se non si aveva la tessera del PCI o della CGIL. A parte Pasolini, che era un marxista davvero atipico, non c’è nulla di memorabile che è derivato da questa egemonia, non c’è nessuno che ha saputo costruire un’arte libera da vincoli ideologici più o meno sentiti. Molti artisti, in effetti, sono stati comunisti perché conveniva esserlo. Altri ci sono nati e cresciuti nelle «chiese marxiste», tanto che hanno trasportato quel modo di rapportarsi all’avversario politico anche quando sono stati folgorati sulla via di Damasco da Berlusconi, come l’ex Lotta Continua Liguori o l’attuale ministro della cultura Bondi. Ti dico una cosa da appassionato di cinema, tanto per darti un’idea di quanto ancora sia dominante questo tipo di cultura. Quest’anno sono stati presentati a Venezia film palesemente ideologici come Cosmonauta, Il grande sogno, Le ombre rosse e Baaria. Un paio di mesi dopo è uscito La prima linea, pellicola dai toni «romantici» su quei giovani compagni che pur sbagliarono ma che erano pieni di bellissimi ideali. A parte Baaria, che è un’epopea lirica e nostalgica, pur se ricca di fastidiosi stereotipi, diretta da un ottimo regista che ha il senso del cinema ad ampio respiro come Tornatore, le altre opere sono destinate a sprofondare nell’oblio della memoria degli spettatori.


Sei un grande esperto ed appassionato di cinema. Dovendo scegliere, quali sono secondo te i tre film che hanno segnato la storia? Quali invece i tre a cui sei più legato?

Tre nomi? Complicatissimo rispondere per un innamorato della settima arte come me. E poi non c’è un criterio universale per stabilire i più grandi film della storia. Certo un appassionato, un esperto, deve conoscere e aver visto un po’ di tutto, prima di lanciarsi in giudizi comunque molto personali. Per farti un esempio, non si può amare il cinema e non aver visto un film di Orson Welles, di Ingmar Bergman, di Charlie Chaplin, di François Truffaut, di John Ford, di Alfred Hitchcook, di David Lynch, solo per farti alcuni nomi. Premesso ciò, rispondo alla tua domanda, con un minimo di motivazioni a supporto. Per ciò che riguarda i film che hanno segnato la storia, ti dico Quarto potere (1941), di Orson Welles, perché è tristemente profetico su quella che sarebbe stata la potenza e l’invadenza dei media sul mondo contemporaneo. In più è un’opera girata e recitata divinamente. Il secondo è senza dubbio Il Settimo Sigillo (1957), di Ingmar Bergman, regista che ha dato vita al cinema che più amo. È una profonda e beffarda riflessione sulla morte, sulla fede e sul senso dell’esistenza, che culmina con un’emblematica partita a scacchi tra un cavaliere di ritorno dalle crociate e la Morte stessa. Credo che Il Settimo Sigillo sia il film che ha ispirato più registi e artisti in assoluto, unitamente a 8 ½ di Fellini, altra pellicola che non stonerebbe affatto in una ideale classifica degli imperdibili. Un capolavoro universale. Il terzo è forse quello che vi sorprenderà di più. E mi riferisco a Guerre Stellari (1977) di George Lucas, perché ha rivoluzionato il modo di fare fantascienza, sia a livello visivo che per ciò che riguarda la complessità narrativa. La figura del guerriero Jedi, un misto tra un monaco e un samurai, resta nell’immaginario di più generazioni. I tre film a cui sono più legato sono, in ordine temporale, Profondo Rosso (1975) di Dario Argento, Fanny & Alexander (1982) di Ingmar Bergman e Big Fish (2003) di Tim Burton. Profondo Rosso è il film che ho visto più di tutti in assoluto – non ti dico il numero di volte perché è impressionante –, che ha segnato il mio passaggio dall’infanzia all’adolescenza, attraverso la rielaborazione catartica degli incubi infantili proposti dal geniale regista romano. Fanny & Alexander è la pellicola della vita, una saga familiare che è una profonda riflessione sull’arte e sui fantasmi dell’infanzia. Big Fish lo dico in omaggio a Tim Burton e al suo mondo gotico e fiabesco, ma avrei anche potuto dire Edward mani di forbice, dello stesso autore. Due film splendidi, in cui centrali sono i percorsi iniziatici-immaginifici e l’elogio della diversità. Come avrai notato, ci sono elementi comuni ai film che mi hanno più segnato, ovvero i riti di passaggio tra infanzia e adolescenza, i percorsi iniziatici, e i mostri e gli incubi come elementi catartici.


In che stato si trova il cinema italiano odierno?

In uno stato pessimo, basta notare che il grande degli incassi lo fanno i cinepanettoni e i film di Pieraccioni. Ma al di là dei pessimi incassi, ci sono problemi atavici, come quello del finanziamento statale dato a opere di scarsa qualità e di pressoché nullo interesse, come il già citato Le ombre rosse di Maselli, ad esempio. C’è anche una preoccupante e prolungata crisi creativa, che si riflette in sceneggiature senza nerbo e senza respiro, di un provincialismo sconfortante. E non lasciatevi ingannare dai consensi di critica ottenuti un paio d’anni or sono da pellicole come Gomorra e Il Divo, film a conti fatti trascurabili e sempre concepiti in ossequio a una visione provinciale del cinema e dell’arte. Abbiamo esportato Muccino in America, mi direte, appena tornato per straziarci coi baci e i dilemmi dei suoi 30enni cresciuti. Io vi dico, da amante della settima arte, che non c’era tutta questa urgenza che tornasse dal dorato esilio. La speranza è legata a giovani che, pur tra mille difficoltà, sono riusciti ad autofinanziarsi e dunque a fare opere libere da vincoli ideologici e di mercato. È il caso del bravo Marco Chiarini e del suo incantevole L’uomo fiammifero, che ha fatto un piccolo capolavoro senza un euro di aiuto statale.


Chiudiamo tornando alla politica. Sei stato più volte a CasaPound. Che cosa ne pensi dell’operato dei ragazzi di Via Napoleone III?

Ne penso tutto il bene possibile, e lo dico sinceramente. Oramai un po’ mi conoscete, e sapete che non vi dico ciò perché mi state intervistando. Credo che CasaPound sia un’oasi di libertà di idee e di brillanti fervori culturali, avendo assistito più volte ai vostri incontri su autori e tematiche sempre di grande interesse o di scottante attualità. Prima di conoscervi sentivo parlare abbastanza male di CasaPound, a destra come a sinistra. Ma io non mi curo di ciò che dice la gente, e quando ne ho avuto l’opportunità sono venuto a verificare di persona, restando piacevolmente sorpreso. Dico di più, CasaPound è un modello che deve essere esportato e che deve trovare interlocutori politici credibili anche nei migliori e più ricettivi ambienti della destra istituzionale, così da estendere la sua vitalità politica e culturale in un territorio ancora più vasto. Mi rendo conto che ciò è complicato, per una serie di motivi inutili da elencare in questa sede e che voi tutti ben conoscete. Per quel che mi riguarda, oramai sono idealmente dei vostri, il mio sostegno alla causa, per piccolo che sia, non verrà mai meno. Un saluto a voi Augusti, e a tutti gli amici di CasaPound. Vi ringrazio dell’intervista, e mi scuso per l’eccessiva lunghezza delle mie risposte.

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giovedì 18 febbraio 2010

Intervista a Gianfranco Franchi



Gianfranco Franchi è nato a Trieste nel 1978. Laureato in Lettere Moderne a Roma III, è scrittore, poeta, saggista, giornalista e consulente editoriale. Ma, soprattutto, è uno degli scrittori più fecondi e interessanti nel panorama letterario nazionale. Annovera, tra le sue numerose pubblicazioni, le due caustiche opere Pagano (Il Foglio Letterario, 2007) e Monteverde (Castelvecchi, 2009). Gestisce «Lankelot», uno dei più grandi siti letterari online.



Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?


Buongiorno, intanto, e grazie per l’ospitalità. Sono un letterato di formazione classica (Liceo e Lettere Moderne), ma sono sempre stato molto indipendente nei miei studi e nelle mie ricerche. Ero uno che all’Università preferiva prepararsi sul Flora, non sul Ferroni. Ero e sono uno che preferiva puntare gli artisti proibiti: laterali, censurati, rimossi, maledetti, mal tradotti, mal pubblicati. Per questo, «mi sia consentito ripetere che la biblioteca di mio padre è stata l’elemento cardine della mia vita. In realtà non ne sono mai uscito», come insegnava Borges. Papà era un filosofo-sindacalista, un intellettuale della DC proveniente dalla sinistra. E tuttavia era uno che leggeva, nelle sue infinite e libere letture, Drieu, Céline, Brasillach, Mishima, Jünger. Non ho faticato molto per scoprire questi artisti, a differenza di tanti miei coetanei: erano già tutti dentro casa mia, li respiravo dall’infanzia, ne sentivo parlare. Ho cominciato – con l’eccezione di Mishima – a leggerli presto. E poi ho dovuto soltanto approfondirli, e cercare di completare – è un’impresa che dovrò portare a termine – la loro opera omnia. Gli artisti fondamentali per la mia formazione sono stati Knut Hamsun, Tiziano Sclavi, Stig Dagerman, Scipio Slataper (più ancora di Svevo), Drieu La Rochelle e Guido Morselli. Chi invece sta risvegliando con una potenza incredibile la mia immaginazione e il mio desiderio di approfondimento e di scoperta, nel 2010, è Giordano Bruno Guerri. Ho quasi esaurito le sue pubblicazioni, le ultime voglio interiorizzarle adagio. È l’unico vero grande romanziere italiano vivente: non è solo uno storico. Le sue biografie sono state una scoperta incredibilmente piacevole e rigenerante.
Quanto ai miti... sono cresciuto leggendo le mitologie di tutto l’Occidente: Romana, Greca, Norrena, Etrusca, Egizia. Il mio mito è il mito di Orfeo. Sogno di sconfiggere la morte, sogno di scoprire il segreto del linguaggio. È un sogno molto antico. Ma è un sogno vivo.


«Il profumo dell’Italia è tra Unie e Promontore/ da Lussin da Val d’Augusto vien l’odor di Roma al cuore...». Che significano per te questi versi?

La canzone del Carnaro è nel mio cuore, non solo per il mio sangue giuliano e per le vicende della mia famiglia, in generale. L’impresa del Comandante D’Annunzio non ha avuto forse colore partitico: ma ha avuto valore sentimentale, e importanza essenziale. Essenziale, non ideale. Fiume era abitata da una popolazione a maggioranza assoluta storicamente italiana: decine di migliaia di nostri fratelli erano rimasti fuori dai confini dello Stato, post Secondo Risorgimento: post Prima Guerra Mondiale. Quando i soldati partirono da Ronchi per andare a riscattare i nostri fiumani dallo straniero – questa sì, questa fu una «Liberazione» –, avrei voluto essere tra loro. In prima linea. Se ci fossero filmati vedreste una città intera pazza di gioia, di incredulità e di italianità che va ad accoglierli. Questa è la verità. Mi onora avere in casa una medaglia con su scritto «Io ho quel che ho donato». Ce la tramandiamo da quattro generazioni. Adesso c’è chi specula sul colore politico di quei giorni, c’è chi li vuole rossi. Sorrido della cosa, perché a me importa che ne parlino: parlandone, saranno costretti a raccontare – finalmente – la verità. La verità è che i giorni della Reggenza sono stati sì un esempio di democrazia d’avanguardia, e di utopia e di disordine assoluto e artistico; ma erano e restavano i giorni della sbornia di gioia di un popolo italiano che poteva abbracciare la sua bandiera e riabbracciare la sua storia, minacciata dal nazionalismo yugoslavo. Qualche anno più tardi sarebbe tutto finito. La storia la conosciamo bene e non ci stancheremo mai di ripeterla a tutti, come il vecchio marinaio di Coleridge. Fin quando non avremo giustizia. Io e il mio popolo abbiamo una gran fame di giustizia.


A tuo parere, quanta strada deve ancora compiere la storiografia sulla questione delle foibe e degli esuli istriano-dalmati? Chi sono i migliori e i peggiori autori in proposito e perché?

Rispetto agli anni Novanta, quando a scuola, qui a Roma, i miei compagni non sapevano nemmeno cosa fosse l’Istria, e quando ascoltavano le storie mie e della mia famiglia come fossero romanzi un po’ fantasiosi, è cambiato molto. È cambiato che soltanto una volta, negli ultimi cinque anni, ho sentito un cittadino dire che gli esuli (i «profughi») erano soltanto dei «fascisti in fuga» («e quindi ben gli sta!», ghignava). È cambiato che incontro meno spesso nipoti o figli di esuli che nascondono la storia del loro cognome. È cambiato che uno studioso del calibro di Raoul Pupo ha pubblicato Il lungo esodo per Rizzoli, nel 2005. E ho letto la verità, scritta con le parole che mi insegnavano i miei nonni materni, piangendo di rabbia e bestemmiando dio e la DC e il PCI per quel che ci avevano fatto, impuniti, titini e partigiani “italiani”: «vale a dire l’esistenza di robusti interessi politici che per alcuni anni hanno sconsigliato di attribuire alle tragedie giuliane una portata nazionale. Sotto questo profilo, il caso più evidente, ma anche più semplice da intendere, è quello della cultura di sinistra d’ascendenza marxista, animata da un duplice ordine di preoccupazioni. La prima e più generale era quella di non dar fiato alle forze anticomuniste in Italia, cui la politica oppressiva del regime di Tito nei confronti degli italiani offriva abbondanti argomenti polemici. La seconda e più specifica era quella di stendere un velo d’ombra sui comportamenti quantomeno ambigui tenuti dal PCI sulla questione di Trieste nell’ultima fase della Resistenza e nei primi anni di dopoguerra». Non è più Petacco a scriverne, è Pupo. Quel libro è fondamentale, democratico, civile, umanissimo: la degna risposta al trio ultrariduzionista (negazionista? Fate voi) composto da Kersevan, Volk e Cernigoi. Volk, per me, rimane a questo punto un grande centravanti della Roma di Testaccio. Punto.
C’è un giovane studioso democratico, mio vecchio amico, che ha pubblicato recentemente – assieme all’ex PCI e DS Stelio Spadaro – un’antologia di «antifascisti democratici» che rappresenta un signor contributo alla causa della verità sulla questione del Confine Orientale. Si chiama L’altra questione di Trieste. Si parla di patriottismo democratico, si parla di esodo, si parla di tragedia della Giulia. Si leggono parole importanti come queste: «Trieste e l’Istria, abbandonate e tradite nel settembre 1943, sono ancora degne della Patria. La storia risponderà se la Patria è stata degna di loro» (Ercole Miani, La Resistenza nella Venezia Giulia). Su queste parole mi fermo. Notate l’accostamento «Patria» «Resistenza» «Venezia Giulia», e pensate a cosa è successo a Porzus. Fermiamoci qua.


Qualcuno ha parlato di pulizia etnica italiana ai danni degli slavi, alla quale le foibe sarebbero state una reazione. Quali furono le politiche del nostro paese tra le due guerre nei confronti delle popolazioni non italiane?

Grande e giusta domanda. Ho avuto la fortuna di studiare i libri dello storico Del Boca, ex partigiano: al di là della distanza ideologica (oddio quanto mi piace la distanza ideologica!) mi sono nutrito delle sue scoperte, e ho cercato di scandagliare, sommariamente, le sue fonti. Intanto, sintetizzo cosa racconta Del Boca in Italiani, brava gente:
«Nei due anni di occupazione, stando alle fonti jugoslave, nella sola provincia di Lubiana furono fucilati 1000 ostaggi e uccise “proditoriamente” 8000 persone; 35mila persone furono deportate in Italia; 4500 morirono nel campo di concentramento di Arbe; migliaia di case furono bruciate». Del Boca parla di «operazione di autentica bonifica etnica» (p. 235). Durante la «bella marcia» nei boschi sloveni furono uccisi 1807 partigiani in combattimento; 847 fucilati; 167 furono i civili uccisi (p. 239). Sei furono i campi di concentramento in territorio italiano: Arbe, in Dalmazia; Gonars e Visco, in Friuli; Monigo e Chiesanuova, in Veneto; Renicci, in Toscana. Nel 1942, 6577 furono i deportati ad Arbe, 2250 a Gonards, 3884 a Renicci, 3522 a Chiesanuova, 3172 a Monigo: secondo gli sloveni, invece, erano già 26mila. Ad Arbe, il tasso di mortalità era del 19 percento; morirono tra le 1495 e le 3500 persone, a seconda delle diverse fonti (p. 243). Secondo Roatta, all’epoca capo di stato maggiore dell’esercito, non si trattò di campi di concentramento ma di «campi di internamento protettivo e volontario»: nati per difendere quei cittadini dall’avanzata delle formazioni bolsceviche (p. 248). Del Boca è eccezionalmente amareggiato per questa menzogna. I Ministeri degli Esteri dei due paesi – Iugoslavia e Italia – si scambiarono liste di criminali di guerra, in cima alla prima il massacratore Tito, capo del loro Stato; rinunciando a consegnare gli italiani responsabili di crimini di guerra non potemmo domandare alla Germania la consegna dei nazisti stragisti per rappresaglia. In compenso, servirono circa 55 anni perché le parti in causa – almeno: due delle parti di esse, ossia Italia e Slovenia – si sedessero a tavolino per scrivere la storia dei vinti e dei vincitori con ben diverso equilibrio.

Adesso – accettando tutto quel che dice Del Boca per vero e per giusto: senza nessuna polemica – si può rispondere molto semplicemente così. Che a fronte di queste malefatte c’è stato l’assassinio di cittadini italiani (italiani, donne e bambini, fascisti e non), e di migliaia di serbi, croati, sloveni non allineati al comunismo di Tito; a fronte di queste malefatte c’è il nazionalismo yugoslavo che ha implicato 350mila esuli e 15mila morti nelle foibe; a fronte di queste malefatte ci sono 65 anni di ingiustizia: città italiane come Pola, Zara, Umago, Pirano, Capodistria, Fiume arbitrariamente occupate e popolate da stranieri, prima estremamente minoritari o del tutto assenti. Fino a qualche anno fa, neanche potevamo ricomprare casa nella oggi «Croazia». Curioso, no? A fronte di queste malefatte, c’è l’assassinio della verità nei libri di storia; e per sessant’anni pieni. A fronte di queste malefatte, c’è la triste vicenda degli esuli, accolti spesso con ingiusto livore e con odio dai nostri compatrioti, in Italia, e costretti a un nuovo esodo in Australia, o in Sudamerica. A fronte di queste malefatte, ci sono tanti suicidi avvenuti nel secondo dopoguerra: erano uomini e donne istriani e dalmati che non si integravano nelle nuove città. È storia anche questa. A fronte di queste malefatte, c’è stata l’accoglienza riservata ai comunisti italiani in località Goli Otok, Isola Calva, negli anni Cinquanta. Un bel lager pronto per accogliere chi andava ad abbracciare il famoso socialismo yugoslavo. Qualcuno è morto, là dentro. Strano, no? E quindi: condanno gli errori del nostro Paese, condanno la politica intollerante e slavofoba, condanno l’incendio del Narodni Dom (senza dimenticare i fatti di Spalato che li hanno originati, è chiaro) e condanno i campi di internamento-concentramento destinati ad accogliere, in condizioni disumane, i cittadini balcanici. Ecco: adesso che ho condannato tutto, senza paura di niente, restituite, per favore, verità al mio popolo. Restituiteci verità e giustizia. Restituiteci le case, la terra, i cimiteri, la storia. Piangete i nostri morti e i nostri esuli anche voi, comunisti e socialisti, anche voi, sloveni e croati. Chiedete scusa. Chiedete scusa. Chiedete scusa. Ci hanno rubato la storia, le case, il mare. Ci hanno rubato l’identità. Proprio come con gli austriaci di «Maribor», e di «Kočevje». Ossia Marburg, e Gottschee. La Yugoslavia è una menzogna che ha sporcato di sangue il Novecento, e ha saccheggiato e distrutto una storia secolare. Questo Del Boca non lo scrive, ma dovrebbe. È ora. Dobbiamo essere onesti.


Sono esistite una parte «giusta» ed una «sbagliata» nel secondo conflitto mondiale?

È una domanda complessa. Ti do una risposta semplice. È giusto ribellarsi allo Stato, può essere giusto: è giusto rovesciare un regime, può essere giusto; è giusto rifiutare di eseguire gli ordini, quando questi ordini sono liberticidi o omicidi. Ma non è giusto ribellarsi allo Stato, al regime e agli ordini alleandosi con una forza straniera, imperialista e sporca di crimini contro l’umanità. Io trovo ridicolo che sia stato salutato come «liberatore» l’esercito sovietico. Come: l’URSS aveva sulla coscienza milioni di morti per carestia indotta in Ucraina (sterminio etnico); come: l’URSS aveva sulla coscienza milioni di morti per sterminio di classe (i «kulaki»). L’URSS aveva massacrato tutti gli ufficiali polacchi a Katyn, per decapitare la loro classe dirigente. Che libertà venivano a portare, e che democrazia? Cosa potevano insegnarci, questi russi? A uccidere di nascosto? A inventare la storia? A fare i genocidi con nonchalance? Ho profondo rispetto per i partigiani patrioti autentici. Per gli azionisti, per esempio. Per i liberali, per i monarchici. Per quelli che si battevano per l’Italia. Non per chi si batteva per il socialismo. Non per chi si batteva per Mosca. Niente affatto per chi, al Confine Orientale, ha sparato ad altri italiani, al fratello di Pasolini e allo zio di De Gregori, perché l’Italia abbandonasse la Giulia alla Yugoslavia. Quelli non sono miei concittadini. Quelli sono cittadini della Yugoslavia di Tito, o dell’URSS di Stalin. Disconosco quella resistenza, non vedo cosa ci sia da apprezzare. Quanto al resto, piango i morti di tutti, perché tutti avevano sulla bocca la parola «patria». Accolgo nel mio cuore la memoria di tutti i caduti per l’Italia, per il futuro dell’Italia, per l’onore e per la dignità dell’Italia. È giusto.


A pagina 40 del tuo libro Pagano hai scritto: «La grande intuizione del fascismo è stata e rimane che non è “Italia”, ma Roma il concetto che può figliare restituzione di spirito, grandezza e intelligenza: è coscienza delle proprie radici e del proprio destino, fondazione d’identità e appartenenza comunitaria. Altro non siamo mai stati». Potresti approfondire il concetto?

Io sono un grande romanista. Da tutti i punti di vista. Scherzi a parte: Roma è storia millenaria, Italia è storia recente. È Roma la nostra origine e la nostra radice, è Roma e la sua gloria e la sua decadenza, e i 1400 anni passati sognando di ritornare a essere uniti. Sono tanti, 1400 anni. Troppi. Roma era il grande sogno degli umanisti. Roma è la parola sulle labbra del mondo quando si parla di qualcosa di eterno, fondato dall’uomo. Roma è l’Europa che stiamo vivendo: una confederazione di popoli, liberi e indipendenti, unita nel nome di pochi importanti valori guida. Siamo capaci – siamo orgogliosi – di accogliere altri popoli, ma vogliamo che siano assimilati: mantengano pure le loro tradizioni e la loro cultura, ma imparino intanto per bene le nostre, e imparino ad amarle e a rispettarle. È così che la conoscenza s’evolve: con la dialettica, col confronto.


Cosa significa per te la parola «comunismo»?

Comunismo era un sogno emi-cristiano d’uguaglianza e di giustizia finito per significare qualcosa di molto diverso. È una parola sporca di sangue di innocenti, sporca di propaganda e di menzogna. È l’utopia cristiana piegata al lavoro: un disastro disumanizzante. Comunismo per me significa il male che ha fatto in Europa, a partire dalla ex Yugoslavia, dall’Istria, da Fiume, dalla Dalmazia; dalla Polonia, dalla Repubblica Ceca, dall’Ungheria. Comunismo significa il nuovo regime imperialista cinese, liberticida e aggressivo. Significa il martirio di popoli liberi in nome d’un popolo soltanto: non dell’umanità, ma d’un’etnia dominante. Questo insegna l’esperienza russa sovietica. Comunismo significa genocidio impunito, per questioni di censo o di etnia. Comunismo significa censura. Altro e ben diverso è stato il comunismo parlamentare italiano: a chi ha rispettato la democrazia va tutto il mio rispetto. Ma allora cambiate nome, compagni. Chiamatevi – chessò – Socialisti Democratici. Condannate anche voi i milioni di morti caduti nel nome del comunismo. È ora. 2010: perché non inventare una nuova ideologia? Vale per tutti. Guardiamo avanti, inventiamo l’utopia nuova. Facciamola bella, giusta, democratica e umana. Facciamola nemica della violenza e della morte. Facciamola nostra.


Niccolò Giani. Che ruolo ha avuto nella tua formazione culturale?

Mi chiamo Gianfranco perché vengo, da parte paterna, dalla famiglia Giani e dalla famiglia Franchi. Ho scoperto pochi anni fa che Niccolò Giani era il caro cugino del mio bisnonno Mario. A casa nessuno mi aveva parlato di lui, sin quando un mio amico storico non ha scoperto la parentela e mi ha avvisato. Cose che succedono, diciamo così. Soffro pensando che abbia firmato il Manifesto della razza, soffro molto di più sapendolo antisemita convinto. Questo mi fa male davvero. Soffro meno pensando al suo stile letterario, alla sua Medaglia d’Oro, alla sua morte da eroe, lanciando – mi hanno poi detto, in famiglia – anche la pistola contro il nemico, dopo esser rimasto senza pallottole. È una figura complessa, sogno di studiarmi per bene la sua mistica perché il ramo letterario della mia famiglia nasce con Mario e Niccolò Giani, un secolo fa. Purtroppo non ho libri di nessuno dei due, e mi piacerebbe molto averne. Mario era il Direttore della Dante di New York, negli anni Trenta. Tornò in Italia, e fu assegnato a Lesina, Dalmazia, perché non voleva abbandonare il suo Paese in un momento di difficoltà. Era uno dei responsabili delle scuole italiane all’estero. Era un patriota. Un lettore formidabile. Un pittore onesto. Un buon padre di famiglia. Un vero triestino.


Julius Evola. Qual è stata la forza e la debolezza del suo pensiero?

Sono più legato a Scaligero che a Evola, per una serie di ragioni. So che quando ho letto Elogio e difesa di Evola, di De Turris, mi s’è aperto un mondo (civiltà, studi, contraddizioni). Mondo che non ho ancora esplorato a dovere. Ho appena cominciato. Mi sono accorto, però, che nell’ambiente letterario – in questo senso ha decisamente ragione De Turris – è rimasto l’unico autore veramente proibito. Ricordo, anni fa, che mi bastò nominarlo durante una presentazione per ritrovarmi in mezzo a una polemica allucinante. In ogni caso: la sua forza è la sua visione spirituale dell’esistenza, la sua debolezza è stata la vicinanza alla Germania. I migliori intellettuali italiani del tempo erano filofrancesi e antitedeschi. Mi sento decisamente vicino a loro. Avevano ragione loro.


Quanto è stato importante Céline per la letteratura del ’900?

Più di Hamsun e più di Drieu: e questa è una stranezza davvero singolare. È stato un narratore espressionista, sperimentale, crudo, cinico e profondo, capace di un livore pari al suo amore per la vita. Credo che imparerò ad amare Céline quando la vita mi avrà fatto del tutto a pezzi. Oppure, quando avrò i capelli bianchi, per bene. Sono troppo giovane per condividere la sua disperazione e la sua furia. Io sono solare, Céline è lunare. Io coi lunari ci gioco un po’, ma per rovesciarli, tendenzialmente. Perché diventino altro, perché tornino alla vita. Tutti abbiamo sofferto, tanto anche. È l’amore per la vita e per l’umanità che ci deve caratterizzare, non il rifiuto di tutto.


Che cosa ha significato per te la lettura di Ernst Jünger?

Jünger è un autore di papà. Tanti anni fa ricordo che era letteralmente impazzito, m’ero ritrovato a casa quindici libri tra Guanda e Adelphi, minori e non. A parte Il trattato del ribelle, che mi era estremamente caro per tutte le ragioni che voi capite al volo, ho evitato di leggerlo sin quando non è morto papà, a settembre. Non so perché. Ho preferito così. L’esperienza è stata potente ma non folgorante. È il Borges tedesco. È un favoloso lettore, un cittadino erudito, innamorato degli animali e delle piante, forse per dimenticare il figlio caduto al fronte. Mi piace molto quando racconta le vicende della Prima Guerra Mondiale: è incredibilmente vivido, credibile, onesto. Mi affascina quando attacca il nazismo restando fieramente tedesco: è un’impresa difficile, richiedeva coraggio e una forte capacità di fare compromessi. Capacità che io non avrei avuto, perché sono diversamente radicale. Mi diverte quando racconta dei suoi viaggi, da quasi centenario, mentre mi annoia quando gioca a fare il Rivarol. Tra Jünger e Drieu io scelgo Drieu.


Quali sono gli scrittori contemporanei maggiormente sottovalutati che meriterebbero ben altra considerazione?

Contemporanei viventi? Tra gli emergenti, nuova generazione, io amo molto Paolo Mascheri (Poliuretano, Il gregario), Claudio Morici (Matti slegati, Actarus), Andrea Consonni (Wrong), Luca Martello (Groucho e i suoi fratelli); viventi ma ingiustamente laterali, Renzo Paris (La vita personale), Francesco Permunian, Tiziano Sclavi. Pochi nomi perché altrimenti scrivo un papiro... Nel Novecento, c’è un mondo di grande Letteratura Italiana da riscoprire e da restituire alla luce, al di là del solito Gallian che adesso Baraghini ha adottato. Penso a Lo Presti, a Bontempelli, a Marinetti, a Tomizza (che non è proprio stato capito), a Stuparich, a Coccioli, a Slataper, a Ceccherini, a Quarantotti Gambini, a Renzo Rosso, a Delfini... l’elenco è sterminato. Non apro nemmeno il discorso “autori proibiti” nell’ex URSS e nella Mitteleuropa e nell’Europa dell’Est. Là si deve pescare a piene mani per un decennio pieno...


Passiamo alla politica. Dopo gli scontri di Piazza Navona del 29 ottobre 2008, hai coraggiosamente e puntualmente smentito le tesi esposte da Beppe Grillo nel suo blog (leggi). Che idea ti sei fatto del comico genovese? C’è qualche personaggio credibile ed indipendente nel mondo dell’informazione?

Beppe Grillo è stata una delusione terrificante. È stato una delle mie fonti sino al giorno in cui ha pubblicato quel video. Da quel momento ho cominciato a verificare come e cosa scrive, e da dove vengono le notizie. Fino ad arrivare a Casaleggio & Associati. Là mi sono fermato e mi sono sentito stupido e ingenuo. Adesso lo considero un buon divulgatore e un buon provocatore, ma non ho più voglia di andare a leggere il suo blog. Non ci credo più. Si è fatto manipolare da qualcuno, quel giorno, è stato ingiusto, precipitoso e cattivo. Quanto ai personaggi credibili e indipendenti, a me è sempre stato simpatico Massimo Fini, pure se non riesco sempre a stargli dietro. A lui devo la mia visione di Nerone, e di Catilina. Nerone è un libro che apre la mente almeno quanto Flatlandia di Abbott, andrebbe adottato nei Licei. Indipendenti non ne conosco tanti, purtroppo. Ogni testata è un ordine, ogni redazione ha una disciplina e una linea. Per questo ho fondato «Lankelot». Io non voglio parlare a comando. Io non voglio avere una linea. Io voglio essere una linea. Imprevedibile, sregolata, tutta ideale. Tutta letteraria.


Sei intervenuto a due conferenze tenutesi a CasaPound. Che idea ti sei fatto dei ragazzi di Via Napoleone III?

Sono stato accolto con amicizia, rispetto, umanità e gentilezza. La prima volta, quando ho sostituito Baraghini – purtroppo minacciato da qualche stupido, antidemocratico e incivile – per parlare di Bianciardi, m’è sembrato di ritornare ai giorni belli del Liceo, più ancora che dell’Università. Ho sentito fame di cultura, di intelligenza, di letteratura, di libertà. La seconda volta, quando abbiamo parlato di Kerouac, mi ha sbalordito ricevere un attacco frontale da un quotidiano che pochi giorni prima mi aveva dedicato una prima pagina, su un suo periodico. L’esperienza mi ha fatto tornare indietro ai momenti bui degli anni Novanta. Alle cose che combattevo allora, da ragazzino: l’egemonia culturale, il colore partitico e politico dato agli autori, la patente di poterne parlare data a chi volevano “loro”. L’ostilità nei confronti del diverso. Il diverso, allora come oggi, ero e sono io – erano e sono quelli come me. Ecco perché amo così tanto la democrazia. E perché la difendo con tutto me stesso. Perché la cultura di questo paese non aveva niente di democratico. Niente.

In via Napoleone III si fa cultura con onestà, competenza e libertà. I miei interventi sono stati assolutamente autonomi e indipendenti: zero controllo, zero richieste, zero «consigli», zero censura, zero «chiacchierate preventive». Non succede, diciamolo, da nessuna parte: l’ospite è sempre – magari con dolcezza – invitato a essere cauto su certi argomenti, oppure si va a domandargli un’anteprima del suo intervento, oppure ci si sincera del suo tesseramento... Chi ha avuto il coraggio di chiamare un cane sciolto, un irregolare come me per parlare di letteratura, di editoria e di cultura, al di fuori dei contesti «commerciali» delle presentazioni? Sino al 2010, nessun partito. Nessuna fondazione. Nessuna chiesa. Nessun movimento. Nessun centro sociale. Soltanto CasaPound. A me sembra un gran lezione di democrazia e di civiltà, di apertura mentale e di coraggio che CP ha dato a tanti. Non me ne dimenticherò mai.


Quanto è difficile coniugare coerenza e successo nel tuo mestiere?

Morselli si è suicidato, per coerenza. È una domanda difficile. Io non credo che questo Paese sia pronto per capire e accettare e rivendicare la coerenza come un talento o almeno un diritto. Io me ne frego del successo, voglio guardarmi allo specchio tutte le sere, prima di andare a dormire, e sentirmi tranquillo. Male non fare paura non avere. Sono fedele ai miei ideali e ai miei principi. Magari per questo pago con lunghi periodi di scarsa occupazione e di nulli riconoscimenti: è così dal 1997. Recentemente mi sembrava che qualcosa si fosse sbloccato. Non è vero. Nell’editoria non basta avere preparazione, umiltà e competenza. Serve qualcosa in più, certe volte. A volte servono sponsor, a volte servono soldi, a volte serve essere politicamente corretti, a volte serve essere molto amici di. Ecco: io non ho sponsor, non ho soldi, non sono politicamente irreggimentato, e i miei amici non sono così influenti. Soprattutto, non ho simpatia – nessuna, nessuna, nessuna – per la vecchia cultura egemone. Non mi va proprio giù, non la voglio, non mi appartiene. Insomma, mi sa che non farò tanta carriera. Ma come dice il grande capo indiano, ogni pomeriggio, a radiorai...


«Lankelot» è tra i più grandi siti di critica letteraria in Italia. Qual è la sua forza e cosa ti aspetti da questa esperienza?

Grazie intanto. La sua forza è l’apertura assoluta. Non si accede per invito. Non si accede per cooptazione. Non è un partito, non è un movimento: è un sogno di democrazia e di dialettica. Un sogno amato da liberali, socialisti, democratici, nostalgici, qualunquisti, comunisti (sì: io ho il culto della diversità, ho fame di diversità, pretendo la diversità), anarchici, apolitici e via dicendo. Si entra, come si entra in piazza – non in casa, in piazza – e si decide come comportarsi, come interagire. Abbiamo una linea molto chiara: la fedeltà agli artisti laterali, minori, emergenti, mai emersi, censurati, rimossi, preferibilmente pubblicati dalla piccola e media editoria. Quanto al resto, c’è sempre massima libertà, purché l’articolo sia abbastanza lungo e rispettoso del nostro semplice format (questo). Per precisa scelta estetica e dialettica, i commenti sono aperti a tutti; purché siano rispettosi del regolamento. Questa è una delle prime, granitiche differenze rispetto agli altri siti letterari. Qui si entra liberamente e francamente e si decide come partecipare, silenziosamente o attivamente, scrivendo cose nuove o commentando soltanto. Qui non c’è l’obbligo di restare fedeli a una linea, perché questo non è l’organo di un partito, intra o extra parlamentare. Non interessa a nessuno di noi monologare o pubblicare comunicati: non ha più senso. A nessuno interessa avere ragione. A tutti interessa comunicare: e confrontarsi. Questa è l’epoca dell’interazione, del dibattito, della dialettica. Il web nasce per questo. Per l’evoluzione via dialettica e studio e critica. Per il dialogo. Per il rizoma. Chiaro che mi sembrano tutte cose molto elementari. Peccato che in Italia siano praticamente uniche, nel web letterario, a un certo livello. Curioso...

Grazie Augusti.



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mercoledì 10 febbraio 2010

Intervista a Luca Leonello Rimbotti



Luca Leonello Rimbotti è nato a Milano nel 1951. Laureato in storia contemporanea, si occupa di mito, filosofia e politica nella cultura europea, in special modo tedesca. È autore – tra gli altri – dei volumi
Il fascismo di sinistra. Da Piazza San Sepolcro al Congresso di Verona (Settimo Sigillo, 1989), Il mito al potere. Le origini pagane del nazionalsocialismo (Settimo Sigillo, 1992), Globalizzazione (Settimo Sigillo, 2003) e La rivoluzione pagana. Relativismo etnico e gerarchia delle forme (Ar, 2006). Ha collaborato con le riviste «Elementi», «Italicum», «Margini», «Linea», «Diorama letterario», «Trasgressioni».



Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?


Il Sovrumanismo di Nietzsche e Stirner, ma anche le individualità letterarie per così dire «eroiche» del tipo di Byron o William Blake, il Romanticismo anglo-tedesco, certe personalità che incarnano la lotta contro il proprio tempo e hanno il tratto del solitario e visionario precursore – da Herder a Oriani, per intenderci – fino ad ambienti del ribellismo storico, ad esempio l’anarco-squadrismo antemarcia. Poi ci metterei il classicismo dorico, l’estetica pre-raffaellita e in genere il figurativismo ottocentesco, da Friedrich ai Simbolisti al Futurismo... poi hanno avuto grande incidenza sulla mia formazione certi ambiti musicali della mia generazione, legati alla musica hard-rock e heavy-metal, coi loro immaginari rivoltosi e i loro rimandi ai valori tradizionali vissuti come opposizione anti-borghese... ma si potrebbe continuare.


Che cos’è stato sinteticamente il Fascismo, in che modo il suo insegnamento può essere ancora valido oggi, e in che senso te ne senti continuatore?

Il punto a mio vedere di gran lunga più importante del Fascismo è stato il tentativo storico di coniugare la tradizione popolare con la modernità: una nuova considerazione delle masse come soggetto politico, una concezione dinamica della vita e della socialità, un potente mito aggregante e identitario, una volontà di futuro che si sposava senza tante incrinature con la rivendicazione delle più lontane appartenenze, coi simboli antichi, col culto della terra dei padri, con la sacralizzazione della comunità di popolo, etc. Trovo che tutto questo proprio oggi rappresenti qualcosa di vivo, giudico che sia un’ideologia generosa di affratellamento e di fierezza, per cui ogni popolo dovrebbe riunirsi attorno ai propri patrimoni ereditati, così da offrire la maggiore resistenza contro il tentativo in atto di distruggere i legami nazionali a favore di un cosmopolitismo privo di identità e negatore delle differenze. Personalmente, mi sento un modesto ma tenace continuatore di tali valori: e da quarant’anni (da quando pubblicai il mio primo articolo) batto e ribatto sul medesimo tasto di una tenuta strenua sui significati di legame e di identità, poiché penso che, perduti questi, non si avranno più uomini e popoli, ognuno con la propria storia e la propria cultura, ma soltanto individui degradati e popolazioni ammassate a casaccio.


Quali sono gli storici che hanno contribuito secondo te ad una più oggettiva e disinteressata interpretazione del Fascismo?

Quelli classici. De Felice, Nolte, Mosse, poi Acquarone, Salvatorelli, Santarelli, sui quali mi sono formato. Ad essi si sono aggiunti Emilio Gentile, Settembrini, Sternhell, Parlato e pochi altri: ma nessuno di essi ha dato interpretazioni «disinteressate». Molti, anzi tutti, erano e sono in varia misura ostili al fascismo. Ciò non toglie che spunti, idee, metodi siano stati per me di insegnamento. Quando mi laureai, il mio professore mi disse che potevo, anzi dovevo avanzare giudizi di valore: da allora così faccio in ogni mio scritto e diffido di chi si proclama super partes. Non avere opinione su ciò che si scrive – essere dunque disinteressati – non è buona cosa per uno storico...


Quali sono, a tuo parere, le più profonde affinità e differenze tra il Fascismo italiano e il Nazionalsocialismo tedesco?

Sono stati movimenti storici molto più affini che differenti. Entrambi intesi a operare quella unione tra modernità e tradizione di cui dicevamo, entrambi basati su sistemi affini di mobilitazione popolare, su una struttura di partito e poi di Stato molto simile. La differenza sta nelle rispettive caratteristiche nazionali: l’antisemitismo, ad esempio, blando e solo di matrice cattolica in Italia, era in Germania diffuso a livello popolare. La maggiore somiglianza risiede, più che nei sistemi sociali o partitici, a mio parere, nella eguale volontà di operare una rivoluzione antropologica, creando un tipo nuovo di uomo che rompesse la tradizione progressista occidentale e si ricollegasse al mito eroico indoeuropeo: la Romanità e il Germanesimo ebbero questa funzione.


In cosa, secondo te, il Fascismo fu il legittimo erede di Roma antica? La Roma fascista fu veramente la Terza Roma?

Penso di sì. Se furono legittimi altri richiami alla Roma antica – pensiamo ai giacobini, ammiratori della Roma repubblicana, o a Mazzini, o ai poeti risorgimentali... – lo fu a maggior ragione il fascismo, che sui temi della fedeltà alla stirpe, la sacralizzazione della tradizione, l’imperialismo colonizzatore, la socialità corporativa, la gerarchia di rango, il senso del destino, etc. ci impiantò un moderno Stato nazionale. Dopo la Roma antica e quella papalina, davvero quella fascista avrebbe dovuto essere la Terza Roma, per dichiarazione esplicita dei suoi protagonisti: che fosse di cartapesta, grottesca o imbelle come ama dire la storiografia, non saprei. Dopotutto, a parte le gravissime deficienze umane, organizzative, etc. del fascismo, alla coalizione mondiale nemica occorsero diversi anni di guerra totale per abbattere un tale disegno politico... di cartone: o sbaglio? E, a giudicare da quanto se ne scrive ancora oggi, tutto questo ha lasciato una certa traccia nella storia.


Giovanni Gentile è stato definito il «filosofo del Fascismo». Quanto è stato grande, a tuo parere, il suo contributo nell’edificazione del regime fascista?

Gentile era uno dei pochi intellettuali italiani conosciuti a livello internazionale: e altri di questa categoria, come ad es. Pirandello o Marinetti, furono del pari fascisti. Ma il fascismo di Gentile fu piuttosto un liberalismo nazionale radicale. Anche se, dobbiamo dire, la socialità gentiliana aveva un tono non solo conservatore: l’umanesimo del lavoro aveva una sua nobiltà e una sua grandezza, e la sua concezione dell’Io come essere comunitario, la sua indicazione che la comunità nazionale non consiste nella mera cittadinanza, ma nell’unità spirituale, costituiscono un’ideologia di forte presa identitaria. La civiltà del lavoro come compiuta realizzazione dell’Idea ha una sua logica e sul finire Gentile – mi riferisco specialmente a Genesi e struttura della società, del 1943 – colse i rapporti tra liberalismo e anarchismo, rifiutandoli nel nome di una marcata funzione sociale dello Stato. Personalmente ho un po’ rivalutato Gentile per alcuni di questi aspetti: non vedeva il partito rivoluzionario, vedeva lo Stato, d’accordo, ma alla fine fece spazio – da buon hegeliano – a una concezione organica non certo di «destra». Sua fu poi, insieme a Mussolini, la visione del fascismo non come semplice movimento politico, ma come religione, forza dello spirito.


Quali furono i pregi e i difetti del «Fascismo di sinistra»?

I pregi? La volontà politica di eliminare i condizionamenti capitalistici senza distruggere il capitale, che è ricchezza del popolo, l’idea di dare al lavoro il protagonismo sociale, la determinazione di farne un elemento della decisione e non della sola esecuzione della volontà politica. Considerare un’unica classe: il popolo. E dare soltanto a chi vive del suo lavoro – che sia in basso o in alto – dignità e onore sociale. La competenza poi (ad es. in Bottai) era giudicata centrale, quindi niente retorica operaista, ma coscienza che senza gerarchia si fa la fine che ha fatto il comunismo, e che fecero le comuni ottocentesche. Al posto dell’utopia, la concreta concezione dello Stato organico: ognuno al suo posto e tutti a remare dalla stessa parte. I difetti? Non avere avuto una potente referente nel partito. Dopo l’accantonamento di Rossoni (1928) non si ha più un leader del fascismo corporativo. Mussolini si barcamena tra capitalisti, monarchia e Chiesa. La Carta del Lavoro era un buon punto di partenza, poi le corporazioni del 1934 rimasero sulla carta. La Camera dei Fasci e delle Corporazioni poteva essere un ottimo strumento per istituzionalizzare il fascismo social-progressista... ma è del 1939, non ebbe tempo per incidere.


Berto Ricci è stato uno degli intellettuali più brillanti e vivaci della «nuova generazione». Qual è il valore della sua opera? Quale lezione ne possiamo trarre oggi?

La sua lotta contro il borghesismo e la concezione individualistica della società, che è tipica della cultura italiana, trovo che sia ancora oggi un messaggio vivo e un modello estremamente valido. Il suo battersi, insieme a tanti altri giovani dell’epoca, per un’idea di «aristocrazia di comando» che desse ai migliori, ai più efficienti e ai più disinteressati, le leve del potere, eliminando la corruzione, il clientelismo e la tradizionale pratica italiana di stare dalla parte del più forte. L’avvento di una generazione di uomini liberi da condizionamenti, che avesse in mente il riscatto dell’onore e della dignità del popolo, e che fosse per questo in grado di toccare gli interessi privati avendo come sponda il fulcro centrale del potere: il partito e Mussolini. Che, invece, rimasero troppo spesso prigionieri dei poteri forti pre-fascisti, alla fine – grazie alle vicende mondiali – risultati vincenti.


La Scuola di Mistica Fascista è stata la fucina dei cosiddetti «apostoli del Fascismo». Quali furono i punti di forza di quell’affascinante esperienza?

La volontà di considerare la vita degna di essere vissuta soltanto se spesa servendo ideali nobili di offerta di sé. Considero la Scuola di Mistica un vero sacerdozio, un ambiente che con taglio propriamente religioso giudicava il sacrificio – persino della propria vita – un fine luminoso cui aspirare, una meta con la quale la persona umana si completa, diventando qualcosa di sovrumano. La dimensione trascendente, innestata su una fede fanatica – non dissimile dalla fede dei santi e dei martiri – è una via difficile e dolorosa, tanto più ardua da intraprendere se concepita come offerta spontanea, persino gioiosa e sorridente nello sforzo di superare i limiti della nostra natura di uomini: si tratta di apici esistenziali difficilmente comprensibili dall’uomo normale, specialmente in un’epoca come la nostra, che premia il furbo, il dissacratore, l’arrivista... cioè i valori opposti a quelli di una visione mistica e sacrale della vita.


In cosa risiede la portata rivoluzionaria del Corporativismo e della Socializzazione delle imprese?

La conciliazione delle classi, il superamento della conflittualità interna al corpo sociale: questo il dato sovvertitore. Il fatto che può essere un partito egemone e addiririttura uno Stato illuminato a guidare il processo di liquidazione del predominio degli interessi privati su quelli comunitari. L’idea che il popolo è un’unità organica, una comunità unita da un medesimo destino e non un insieme di interessi divergenti, legati alla categoria di lavoro cui si appartiene. Pur con certe differenze, talora marcate, tra il sindacalismo integrale e il corporativismo vero e proprio, si nota un comune intendimento di pervenire al concetto di organicità dell’economia. Progetti come quello della corporazione proprietaria di Spirito – in un contesto di maggiore forza politica – avrebbero rivoluzionato gli assetti sociali dalle fondamenta: la proprietà, la gestione e gli utili d’impresa spartiti tra i membri della produzione, gli esecutivi come i direttivi. Ma anche il corporativismo «di regime», pur attuato poco e male, aveva un’ideale nobile: proprietà dei mezzi produttivi inalterata, ma verifica che non avesse a prevalere l’interesse del capitalista sull’interesse della produzione nazionale. La socializzazione, poi, che dava al lavoro la cointeressenza sugli utili, spingeva tale ottica rivoluzionaria a un punto radicale: la stessa gestione è appannaggio delle categorie del lavoro, e il ricavato viene suddiviso tra chi lavora, e non elargito dal capitalista in qualità di salario. Antioperaismo, anticapitalismo e produttivismo organico: non c’è nulla, in questa concezione, che non possa essere ancora oggi pienamente ripreso da un movimento politico inteso a superare le micidiali derive della gestione multinazionale dell’impresa e soprattutto a spezzare il predominio della finanza sull’economia e quello dell’economia sulla politica. Molto modestamente e con tutti i limiti del caso, il sottoscritto è stato il primo ad occuparsi specificamente del «fascismo di sinistra», anticipato solo dal breve saggio di Silvio Lanaro che comparve sulla rivista «Belfagor» nel 1975: lo stesso Settembrini – che nel suo libro Parlato, pur citandomi, dice essere stato il primo – mi seguì di due anni. Rivendico questa modesta primogenitura e confesso che non mi sono mai distaccato dalle mie giovanili convinzioni, che il fascismo avesse una forte spinta rivoluzionaria anche in senso sociale.


Evola è stato un punto di riferimento importante degli eredi del Fascismo. Qual è stata la forza e la debolezza del suo pensiero?

La sua forza è stata nella rara capacità di evocare miti viventi. Di fare di alcuni simboli e di alcuni mondi culturali l’antefatto immediato di una presa di coscienza politica che potesse essere ancora attuale. Il suo talento nell’affrescare valori storici e significati tradizionali imprime indubbiamente un’energia ideologica animatrice, che rimane indelebile in chi ha avuto i suoi libri tra gli elementi formativi. Certo, non comprese appieno il fascismo e la sua epoca. Non ebbe i mezzi culturali per apprezzare uno sforzo di tale portata, inteso a innestare i motivi tradizionali nella modernità, facendone cultura di popolo ed estraendoli dalle chiuse stanze degli eruditi. Similmente ai circoli nazionalconservatori tedeschi, era assente in Evola la sensibilità politica atta ad apprezzare il disegno di portata epocale di combinare l’arcaicità col futuro. Mancanza impolitica non da poco, che tuttavia non ne compromette il retaggio sotto il punto di vista del valore culturale e ideologico.


Quali sono stati, a tuo parere, i gruppi organizzati e le fucine di pensiero più importanti e validi del neofascismo dal dopoguerra ad oggi?

Penso che soltanto l’ambiente di Ordine Nuovo sia stato, ai tempi e per un breve periodo, un vero laboratorio di pensiero politico. Agganciato a Evola – pur coi difetti di costui di cui si è detto – quel sodalizio ebbe la capacità di sollevare argomenti, miti, inquadrature con ricadute sul politico, insomma un’ideologia in sé coerente, una vera concezione del mondo. Personalmente poi ho partecipato per lunghi anni all’esperienza della cosiddetta «Nuova Destra»: qui veramente si ebbero incisivi segnali di uno svecchiamento della cultura politica, nuovi temi affiorarono, antichi complessi venivano abbandonati. De Benoist per un periodo importante è stato un maestro di elaborazione nuova, un intellettuale creativo e fertile, che ha aperto spazi e indicato metodi. In maniera non dissimile, Marco Tarchi ha impresso in tanti di noi la capacità di vedere le cose più da lontano, con ottica libera, cercando nuovi collegamenti. Purtroppo il progetto metapolitico della Nuova Destra, isolata in modo crescente, non ha sfondato: e i suoi paladini hanno finito con l’essere attirati di nuovo dal magnete delle loro culture di provenienza. Così molti oggi sono tra le gambe del potere, altri sono rifluiti allo studio del fascismo e dintorni. Marco lotta ancora da solo e con qualche giovane nella sua trincea. Ma l’esperienza – parlo per me – non è stata infeconda, i suoi semi hanno in qualche modo fruttificato, anche se solo a livello individuale.


Anni di piombo. Quali i miti da sfatare, le logiche ed i protagonisti occulti di quel periodo?

Confesso che l’intero capitolo degli «anni di piombo» non mi ha mai interessato. L’ho sempre visto come un ginepraio di loschi traffici, atteggiamenti ambigui, idealismi mal riposti e oscene compromissioni. Ho un istintivo distacco per tutto quanto non è limpido e aperto. Dico soltanto che provo umana comprensione per tutti coloro che, senza colpe, sono stati travolti dalla logica dura del potere, e ne hanno sofferto.


Si parla spesso di «identità», o con richiami puramente retorici oppure con invocazioni ideologiche al meticciato: che senso ha questa parola? Il melting pot è, secondo te, un pericolo o una possibilità?

Identità è l’esser se stessi: ciò vale per un singolo uomo come per un singolo popolo. Tutto ciò che non attiene all’esser se stessi è evidentemente estraneo o addirittura nemico dell’identità, mirando a sfigurare un volto e a renderlo irriconoscibile. Gettare masse delle più disparate provenienze all’interno di un popolo significa volerne annientare la forma e la caratteristica storica, bella o brutta che sia. Tanto l’immigrante quanto chi subisce l’immigrazione perde qualcosa di sostanziale: la propria tradizione, il proprio passato, la propria cultura, il proprio onore di uomo, che non consiste solo nell’individualità, ma anche nell’appartenere a una cultura storica, sia pure la più umile del pianeta. Che, in quanto tale, merita anch’essa rispetto e protezione: che c’è di positivo in questo voler annientare i legami di storia e di cultura? In nome di cosa, poi? La cittadinanza universale?


Che cosa pensi del processo di unificazione europea? Meglio un’unione “inquinata” da derive liberalcapitalistiche, oppure un rafforzamento delle sovranità nazionali?

L’attuale unificazione europea è a gestione bancaria, lo vede anche un cieco. I popoli europei – del resto quasi mai consultati in proposito e, quando consultati, espressisi negativamente – non c’entrano niente. Un rafforzamento identitario a tutti i livelli, oggi che il vecchio nazionalismo è superato da due guerre civili, sarebbe auspicabile in vista di un’Europa unita. I regionalismi, in questo senso, li giudico positivamente, come ogni fenomeno di rinsaldamento identitario. Lo stesso nazionalismo non esclude né il regionalismo né l’europeismo, anzi li presuppone: gli imperi da sempre sono innestati sulle piccole appartenenze. Di solito si obietta che il nazionalismo porta alla guerra. Direi che non è vero. È solo quando il nazionalismo viene forzato dall’interesse economico imperialista che diventa un elemento infiammabile, altrimenti l’amare il proprio popolo non prevede affatto l’odiare quelli altrui, al contrario. Le recenti faide balcaniche sono state causate da precedenti motivi di internazionalismo comunista: popoli a forte identità mescolati a forza dal pregiudizio anti-nazionale, e che hanno scatenato l’odio reciproco che si crea dalla fusione coatta. Mi risulta poi che la liberaldemocrazia sia in grado di scatenare guerre perfettamente distruttive, senza avanzare la minima rivendicazione nazionale, ma anzi proprio nel nome di quelle utopie internazionaliste che vengono gestite da liberali e neo-giacobini (la «destra» e la «sinistra») in assoluta concordia.


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